A quarant’anni di distanza dall’avvento dell’ayatollah Khomeini al potere, la vita delle donne in Iran continua ad essere molto lontana da una vera emancipazione. Anche se oggi ci sembra difficile crederlo, l’obbligatorietà del velo venne introdotta solo in seguito alla Rivoluzione del 1979, quando il partito islamico prese il sopravvento sulle altre forze rivoluzionarie. Il regime filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi venne spazzato via e con esso anche una società che era tra le più moderne e laiche dell’area mediorientale. Portare l’hijab divenne obbligatorio per tutte le donne a partire dai primi anni ’80: se durante la rivoluzione aveva rappresentato una forma di protesta di una parte del mondo islamico contro valori considerati estranei alla cultura persiana, questo indumento divenne ben presto simbolo di costrizione e controllo sociale, oltre che di discriminazione di genere.
Gesti di coraggio, atti di libertà
Oggi, per una donna iraniana, togliersi il velo in pubblico significa rischiare una condanna per “incitamento alla corruzione” o per “prostituzione”. Lo sa bene Nasrin Sotoudeh, avvocatessa e attivista per i diritti delle donne iraniane, condannata nel maggio 2019 a 33 anni di carcere e 148 frustate per aver osato togliersi in pubblico il velo in segno di protesta e di sfida al regime, infrangendo quindi l’articolo 134 del Codice penale del suo Paese.
Si tratta della condanna più pesante inflitta a un attivista per i diritti umani in Iran dal 1979. Ma Sotoudeh, che è stata condannata anche per “propaganda contro lo Stato”, non è l’unica donna ad aver protestato contro la condizione di sottomissione a cui sono costrette nella Repubblica islamica. Esistono molti altri divieti e limitazioni nella vita delle donne in Iran, dall’esclusione dalla vita pubblica alla negazione del diritto di voto, ma il velo è senza dubbio il simbolo più visibile di questa discriminazione di genere e al tempo stesso il più facile da utilizzare per ribellarsi al regime. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo sono state tante le donne che in silenzio hanno portato avanti la protesta, decidendo di togliersi l’hijab e facendosi fotografare in pubblico.
La protesta tra futuro e repressione
Oltre all’obbligatorietà di portare il velo, che entra in vigore al nono anno di età, la vita delle donne in Iran è scandita da centinaia di altri divieti. Non possono candidarsi alle elezioni, non possono votare, non hanno accesso ad anticoncezionali, non possono praticare sport o assistere ad eventi ludici o ricreativi, non possono cantare in pubblico o esibirsi in qualsiasi forma di creatività. Senza contare gli innumerevoli matrimoni forzati e precoci che sono ancora una prassi in larga parte del Paese: l’età minima per contrarre un matrimonio è di 13 anni. I rapporti omosessuali tra donne sono puniti con 100 frustate e alla quarta infrazione con la pena di morte.
Per cambiare il corso delle cose è necessario un movimento vasto e compatto. Anche gli uomini iraniani dovranno fare la loro pare se si vuole che il Paese si avvii verso trasformazioni sociali importanti. Anche Amnesty International è intervenuta per chiedere la scarcerazione di Sotoudeh, la cui opera ha rappresentato fino a questo una speranza per milioni di donne iraniane.